mercoledì 8 maggio 2013


LIBRO

Come già analizzato in precedenti post, i gas tossici ricoprirono un ruolo decisivo lungo tutta la Prima Guerra Mondiale. La loro diffusione nell’ ambiente circostante fu oggetto di studi e ricerche, spesso condotte da scienziati e ingegneri italiani, volte a massimizzare i danni causati dagli stessi a parità di quantità di gas impiegata. Proprio gli italiani svolsero numerosi test relativi a questo ambito, diventando in pochi anni tanto esperti da utilizzare le tecniche apprese in Eritrea e Libia.
In generale infatti l'impiego degli aggressivi chimici pone delle difficoltà a causa di fattori intrinseci quali:
·         persistenza: alcuni agenti sono difficilmente idrolizzabili e il loro smaltimento risulta estremamente difficoltoso, cosicché essi permangono per molto tempo in situ ad esplicare la loro azione tossica. Questo comporta che anche chi abbia utilizzato tali agenti allo scopo di conquistare un certo territorio, si troverà ad occupare un territorio saturo di una sostanza aselettivamente tossica (ovvero, tossica anche contro chi l'ha impiegata)
·         inaffidabilità: l'area e la direzione di dispersione non possono essere calcolati con sicurezza assoluta
·         corrosività: lo stoccaggio di alcuni composti pone problematiche di tenuta dei contenitori
·         assenza di antidoti efficaci: alcuni di questi aggressivi chimici si trovano tuttora privi d'un antidoto efficace.
I requisiti richiesti agli aggressivi chimici per il loro impiego sul campo di battaglia sono connessi alla velocità d'efficacia nel rendere non operative le truppe nemiche, e, per quanto possibile, alla creazione rapida d'una cospicua massa d'invalidi più che una strage in sé. Infatti, crea maggiori problemi logistici il ricovero di un notevole quantitativo di feriti nei servizi ospedalieri dietro le linee avversarie, che non la morte immediata dei soldati nemici.
In linea teorica, gli aggressivi chimici dovrebbero possedere le seguenti caratteristiche:
·         estrema stabilità agli agenti atmosferici, biologici, biochimico-metabolici, chimico-fisici in generale, al fine di conservare a lungo il loro potenziale offensivo
·         scarsa o nulla reattività agli agenti chimici (dovrebbero essere inerti, od il meno reattivi possibile), così da non venir rapidamente degradati
·         elevata persistenza sul campo di battaglia, come conseguenza dei precedenti requisiti.
·         produzione e conservazione agevoli e possibilmente sicure, cosicché sia facile conservarne scorte cospicue
·         amfipaticità, tale che possano essere sia liposolubili, che idrosolubili; ciò li rende penetranti in ogni ambiente e per qualsiasi via (corpo umano incluso)
·         multiaggressività: In particolare, devono poter penetrare nell'organismo tramite più accessi contemporaneamente od alternativamente. La penetrazione nell'organismo mediante vie plurime si configura come la qualità più essenziale, al fine di rendere difficoltosa l'opera di difesa
·         difficoltà d'identificazione da parte di test chimici estemporanei e di esami chimici accurati
·         possibilità d'inattivazione veloce da parte di coloro che accidentalmente venissero intossicati (devono esistere antidoti, protezioni, e mezzi di difesa a disposizione della parte attaccante)
·         rapidità d'azione, unitamente a tossicità elevata: devono possedere una diffusibilità ed una capacità di veloce e totale saturazione di ambienti aperti e ventilati; le sopracitate caratteristiche, così come l'essere fortemente tossici, ossia attivi alle concentrazioni minime richieste e, per i neurogas, anche a dosi infinitesimali. Non essendo suscettibili d'alcuna biodegradazione, tali qualità vengono pienamente soddisfatte da composti gassosi, vapori, aerosol, o, meglio ancora, da liquidi a bassa tensione di vapore. Questi ultimi, infatti, sono suscettibili d'immagazzinamento e di trasporto sicuri, e garantiscono una pronta e spontanea vaporizzazione una volta rilasciati nell'ambiente.

Come prima forma di risposta alle problematiche sopra presentate vi è il metodo di dispersione.
La dispersione è il metodo di diffusione più semplice. Consiste nel rilasciare l'agente nelle vicinanze del bersaglio prima della diffusione.
Agli inizi della prima guerra mondiale si aprivano semplicemente i contenitori di gas aspettando che il vento lo disperdesse oltre le linee nemiche. Benché relativamente semplice questa tecnica presentava diversi svantaggi. La diffusione dipendeva dalla velocità e dalla direzione del vento: se il vento era incostante, come nella battaglia di Loos, il gas poteva essere spinto indietro contro gli utilizzatori stessi. Le nuvole di gas, inoltre, erano facilmente percepibili dai nemici che avevano spesso il tempo di proteggersi. È da notare tuttavia che la visione dell'arrivo della nuvola di gas aveva per molti soldati un effetto terrorizzante. Con la tecnica della diffusione aerea inoltre il gas presentava una penetrazione limitata riuscendo a colpire solo le prime linee prima di essere dispersa. L'apprestamento delle batterie di bombole richiedeva poi molta manodopera, sia per il trasporto del materiale che per l'allestimento delle trincee, e tutto il lavoro poteva essere vanificato da un colpo d'artiglieria nemico che andando a segno danneggiasse qualche bombola; l'effetto sorpresa, indispensabile per cogliere impreparato il nemico, era infine inversamente proporzionale al tempo necessario alla preparazione dell'attacco.
Per queste ed altre considerazioni si ricercarono subito modalità alternative per far giungere il gas sulle trincee nemiche senza rischi per i propri uomini, e in concentrazione sufficiente. I primi ritrovati messi a punto furono dei lanciabombe adattati al lancio di contenitori di gas destinati a rompersi nell'impatto col suolo; numerosi furono i modelli costruiti fra i vari eserciti (il più diffuso fu probabilmente il britannico "Livens"), ma in genere il criterio di impiego era il medesimo: venivano apprestate in prossimità della prima linea vere e proprie batterie di centinaia di lanciabombe interrati; questi, al momento dell'attacco, venivano azionati contemporaneamente tramite un comando elettrico e lanciavano il proprio carico venefico a distanze variabili da 400 metri ad un paio di chilometri.
L'utilizzo del lanciabombe rimase in voga per tutta la guerra, ma la ricerca da parte di tutti gli eserciti marciava verso l'impiego dell'artiglieria. Ciò permise di superare molti inconvenienti legati all'impiego delle bombole. L'arrivo a destinazione dei gas era indipendente dalle condizioni del vento e si aumentava il raggio d'azione secondo la portata dei cannoni; si era in grado inoltre di scegliere quali bersagli colpire, con relativa precisione, ed eventualmente differenziare i gas utilizzati in una stessa azione a seconda della tipologia di bersaglio. I proiettili inoltre potevano diffondere l'agente senza alcun preavviso per i nemici, specialmente il fosgene, quasi inodore. In molti casi i proiettili caduti senza deflagrare venivano giudicati normali colpi inesplosi, il che lasciava il tempo all'agente di diffondersi prima che fossero prese le precauzioni necessarie.
Il difetto maggiore di questa tecnica era la difficoltà a raggiungere concentrazioni sufficienti di gas. Ogni proiettile poteva trasportare una quantità relativamente piccola di gas e per ottenere una nube paragonabile a quella generata dalle bombole era necessario eseguire un intenso bombardamento di artiglieria. Negli anni cinquanta e sessanta i razzi d'artiglieria per la guerra chimica contenevano molte "sotto-munizioni" in modo da formare un gran numero di piccole nuvole tossiche sul bersaglio.
Con il procedere degli anni si svilupparono via via tecniche tanto più complesse quanto più efficaci, che andarono ad aumentare ulteriormente gli effetti distruttivi dei gas tossici.



Fabio Ducato

Nessun commento:

Posta un commento